Parte 3: “CORONAVIRUS, PENSIERI DALLA QUARANTENA PER LA FASE 2”

Coronavirus, fase 2. Pensieri dalla quarantena: più scuola non meno scuola

Coronavirus, fase 2.

Gli alunni con disabilità, pensieri dalla quarantena.

Si può fare a meno della scuola?

Ho letto sui siti dedicati ai temi scolastici, alcuni interventi di esponenti sindacali che dicono, già adesso, ad aprile, che a settembre non si potrà tornare a scuola e si dovrà continuare con la didattica a distanza.

Che non si possa tornare alla scuola di prima, è evidente a tutti. Classi con 25 o 28 allievi stipati gomito a gomito, attaccati alla cattedra, con bagni puliti (?) soltanto la sera, dopo 8 ore di scuola più il pre-orario e il post-orario per i più piccoli, con mense sovraffollate e cibo scodellato dai pentoloni, con palestre spesso casuali o cui si deve andare usando addirittura i mezzi pubblici, con laboratori collocati in ambienti ricavati, senza acqua calda che esce dai rubinetti, in cui bisogna portarsi il sapone e l’asciugamano e la carta igienica da casa perché la scuola non ha i soldi per comprarli, viaggiando su pullmini sovraffollati o su mezzi pubblici pure essi sovraffollati. Certamente che così non si può, non con un virus potenzialmente letale in giro.

E non si può portarci dentro ragazzi disabili che hanno problemi di varia natura, come cercavo di ragionare nel primo intervento di questa serie.

Ma queste condizioni sono modificabili o no? Abbiamo visto ospedali rigenerare la propria struttura mentre le ambulanze scaricavano un moribondo dopo l’altro. E’ stato come cambiare il motore di un’auto mentre si viaggia in autostrada a duecento all’ora.

E non possiamo pensare alle scuole? In Emilia-Romagna, dopo il terremoto, in pochissimo tempo sono state individuate strutture scolastiche da mettere su in pochissimo tempo. Abbiamo riportato tutti a scuola perché non è passato neanche per la testa a qualcuno di pensare che la scuola non era importante e si poteva posporre a piacimento. Tra l’altro, le nuove strutture sono state costruite in modo antisismico, cosicché è stato spiegato ai genitori, ad esempio, che le “casette” di legno erano molto più sicure, in caso di nuove scosse, delle scuole in muratura.

Perché non possiamo pensare ad un piano straordinario di ambienti scolastici aggiuntivi, anche in container adeguati (dopo il terremoto sappiamo quali sono, come sono, cosa costano, chi li può procurare e sistemare). Occorre più personale: è ovvio. Non stiamo assumendo medici e infermieri a tambur battente per far fronte ad anni di tagli a ripetizione? Perché non si può fare per la scuola? Chi l’ha detto?

Tra l’altro mentre abbiamo dovuto importare medici dall’estero, di insegnanti invece non abbiamo penuria. Non vogliamo immetterli in ruolo? Facciamo contratti a termine. Poi penseremo ai concorsi (sapendo che i concorsi della scuola sono cammini in campi minati che chiedono anni e generano ricorsi su ricorsi).

Poi il pensiero. Ci servono soltanto insegnanti? No, ci serve molto di più. Ci serve che giovani psicologi vengano in queste nuove scuole ripensate per occuparsi del trauma che tutti i ragazzi hanno subito. Abbiamo bisogno che le Università facciano ricerca psicologica, pedagogica, didattica, sociologica sulla nuova condizione e su come la stiamo vivendo con i nostri ragazzi.

Dei ragazzi certificati riparlerò più avanti.

Torno un attimo sul perché non si può pensare a non fare scuola, sia pure in modi completamente nuovi e totalmente ripensati con creatività e libertà da lacci burocratici, accidie, paure di vario tipo.

Don Milani, tanti anni fa, scrisse che “per i poveri non ci sono domeniche”. Voleva dire che per superare il gap socio-culturale occorreva un impegno continuo e indefesso, una scuola nuova e diversa.

Nel nostro presente già la questione della povertà e del disagio socio-economico-culturale si stavano profilando con forza, anche se nella società edonistica e votata al consumo questo non si voleva né vedere né rappresentare. Ma tutti abbiamo visto gli anziani cercare nei cassonetti dopo che la COOP aveva buttavo via il cibo di scarto. Tutti abbiamo visto l’imbarazzo dei commessi che dovevano per legge buttare cibo mentre i vecchi stavano a guardare aspettando che se ne andassero. Ho visto io commessi far finta che non ci fosse più posto nel cassonetto per lasciare a terra una cassetta di mele avvizzite e non vendibili, ma ancora buone, da cuocere, ad esempio.

Io ho lavorato in una scuola in un paese in cui, in occasione di una crisi economica particolarmente forte, alcune industrie locali avevano chiuso ed entrambi i genitori si erano trovati dall’oggi al domani senza lavoro e senza reddito, con il mutuo da pagare, le rate dell’auto pure, i figli da vestire e nutrire.

Gente che aveva sempre lavorato, gente operosa che affrontava la nuova, improvvisa povertà con dignitosa disperazione.

La Caritas già da tempo ci parlava dell’allungarsi delle file alle sue mense e alla distribuzione del cibo, con persone che mai c’erano state e mai avrebbero pensato di esserci. Che tenevano la testa bassa come se fosse una loro vergogna e non quella di una società sbagliata.

 

Oggi assistiamo ad una nuova ondata di povertà, data dall’impossibilità di determinate situazioni a reggere al mondo del coronavirus. Attenzione: non lasciamoci ingannare dall’idea che entro qualche mese saremo tutti vaccinati. Ci sono innumerevoli variabili che non conosciamo e gli studiosi lo stanno dicendo, sia pure sommessamente per non passare per disfattisti. O il Covid19 scomparirà come la SARS (ma un esperto come Fauci ha già detto che non è probabile che accade) oppure dovremo conviverci per diverso tempo.

Quindi nuova povertà e vecchie povertà vengono ad unirsi e non domani, adesso. A questo si risponde con più scuola non con meno scuola. Ho detto una scuola innovata a ripensata, senza tanti lacci e lacciuoli.

Una scuola flessibile che sa adattarsi a quello che c’è, cercando sempre sicurezza, in primo luogo, e poi senso di vita individuale e collettiva, solidarietà, reciprocità e supporto. La scuola pensata in questi ultimi anni da alcuni, tesa alla competizione e allo scarto del più debole, non ha legittimità né diritto. Non l’aveva prima e non l’avrà nel difficile domani verso cui ci avviamo.

Certamente non ci potrà essere una scuola che non fa mangiare a mensa un bambino i cui genitori non pagano la retta. Prima si pensava di sfangarla perché si riteneva, a torto, che fossero soltanto i figli degli immigrati in queste condizioni. Non era così e certamente non sarà più così adesso.

La presenza degli alunni disabili in tutto questo?

Anche per loro, più che per tutti gli altri, occorre più scuola e non meno scuola (o nessuna scuola) al tempo del coronavirus.

Innanzi tutto sappiamo che molti di loro, in questi mesi senza scuola, hanno perso molte capacità prima acquisite con tanta fatica. E’ inevitabile.

I loro genitori, le loro famiglie, già in affanno prima, sono ora letteralmente disperate, e al problema di avere un figlio con disabilità di aggiungono le difficoltà comuni. Quanti genitori hanno perso il lavoro e quindi non avranno più le risorse economiche per sopperire in prima persona alle lacune di un servizio socio-assistenziale e scolastico non all’altezza dei bisogni (quindi dei diritti)?

Quanti hanno perduto la risorsa dei nonni, che potevano aiutare e sollevare un poco la fatica quotidiana dell’assistenza H24?

Ci vuole più scuola, in senso lato, per recuperare il tempo perduto e le capacità volatilizzate. Una scuola diversa, articolata in tempi diversi e con figure professionali diverse.

Penso: ci sono studenti delle accademie di belle arti, perché non facciamo progetti per farli venire a scuola, per fare laboratori con i bambini e i ragazzi, sia certificati sia no, in piccolissimi gruppi, con assistenti a vigilare? Perché non può essere un progetto per innovare l’accademia?

Perché le scuole di recitazione non vengono a scuola per inventare spettacoli con i bambini, in piccolissimi gruppi, da registrare e trasmettere via internet, in attesa che, un domani, si possa tornare agli spettacoli in presenza? Niente aiuta come la recitazione ad elaborare ansie e paure e rabbia.

Perché non vengono gli allievi dell’alberghiero a insegnare a fare un panino creativo o un’insalata saporita?

Sempre per piccoli gruppi, in ambienti ricostruiti o reperiti ad hoc. Quando io ero giovane e si era in pieno baby boom, c’erano aule dappertutto nel quartiere, usando negozi sfitti. Nel quartiere dove vivo già c’erano una enorme quantità di negozi chiusi da anni. Adesso se ne aggiungeranno anche altri. Se penso alla scuola in cui ho insegnato, potrei indicare almeno 8 spazi inutilizzati, dotati di bagno, adattabili con poco. Gruppetti di 3-4 bambini o ragazzi ci starebbero belli larghi, a fare cose interessanti con gente motivata. Se andavano bene negli anni Sessanta, perché non ora?

Quale il ruolo della scuola in senso stretto? Quello di coordinare e dare senso, di sviluppare gli apprendimenti approfittando della possibilità di vedere gli alunni a piccoli gruppi, utilizzando anche la didattica a distanza per chi può, sapendo però che la didattica a distanza non è la scuola e non è per tutti.

Spero che queste mie riflessioni possano essere di qualche aiuto, soprattutto per le associazioni che stanno trattando a livello nazionale e locale il futuro dei bambini e dei ragazzi con disabilità

Saluti cari a tutti.

Graziella

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